Transfert

Per cogliere la complessità del concetto di «transfert», impossibile da costringere in scarna definizione senza esiti mutilanti, è indispensabile il ricorso alla sua biografia, segnata da una carriera teorica eccezionale, se si pensa che in partenza esso indica nulla più che un particolare e contingente intoppo nella cura, mentre al suo culmine designa nientemeno che un vero e proprio fenomeno universale, condizione necessaria di ogni relazione umana significativa, sia essa analitica o meno. Tra l'oscurità di una nascita particolare e contingente da un lato, e lo splendore di un destino universale e necessario dall'altro, la storia del concetto si snoda ricca di ambivalenze, dovute al convergere di problemi clinici e teorici. S. Freud fece buona parte di questa storia, individuò l'intoppo in quegli esordi della psicoanalisi noti come «cura catartica», ne trattò in termini di impedimento che a volte e purtroppo nasce nella relazione col paziente (Freud, 1892-95), salvo poi accorgersi gradualmente della regolarità legiforme del transfert, teorizzato ora come fenomeno universale e come ciò su cui si fonda e verte l'analisi. «A volte» e «purtroppo» scomparvero così definitivamente dai resoconti freudiani, mentre «impedimento» continuò a resistere parzialmente in essi, qua e là colorandoli di ambivalenza.

Tuttavia, se fu Freud a scoprire il transfert e a inaugurarne la storia moderna conferendogli dignità scientifica, là preistoria dei fenomeni transferali merita qualche cenno mirato a localizzare l'avvio dell'avventura freudiana all'incrocio fra tradizione filosofica e neurologica. Il transfert è infatti riconoscibile, in forma del tutto anonima e implicita, già all'alba del pensiero occidentale, nella tradizione filosofica greca, che basa cura dell'anima e consegna transgenerazionale del sapere proprio su un rapporto affettivo tra maestro e allievo che, con vari accenti e sfumature, della relazione transferale possiede i connotati inconfondibili. Anzi, l'evidenza mostra che le scuole filosofiche greche erano organizzate come istituti di training in cui l'attività collegiale di studio era preceduta e affiancata da un prolungato rapporto del giovane aspirante filosofo col maestro, psicoterapia ante litteram mirata a mobilitazione e sfruttamento del legame relazionale. Circa due millenni dopo, l'esplosiva riserva di energia psichica presente nel legame relazionale, che era stata inconsapevolmente sfruttata dalla filosofia, fu denunciata come pericolo capace di dirompenti ricadute sociali.

Poco prima della Rivoluzione francese, F. A. Mesmer, medico viennese di stanza a Parigi, aveva teorizzato che ogni essere vivente è serbatoio di un'energia magnetica suscettibile, in opportune condizioni, di essere piegata a fini terapeutici. Di qui l'innesco di un fenomeno di massa a tal punto epidemico da imporsi all'attenzione della polizia: l'iconografia classica lo rappresenta sotto forma di un paziente magnetizzato, in genere una giovane donna, in inerme atteggiamento di resa alle seducenti manovre del proprio magnetizzatore. La sintomatologia del paziente si offre oggi a immediata interpretazione freudiana, e altrettanto vale per l'incandescente natura del legame magnetico. Di quest'ultimo, nel rapporto segreto che l'astronomo J.-S. Bailly stese per Luigi XVI su incarico dello stesso sovrano, è possibile infatti leggere un'esauriente descrizione in forma di transfert erotico erompente tra magnetizzatore e magnetizzata. Il termine «transfert» è ancora latitante, ma la sua variante erotica è descritta tanto puntualmente che se ne coglie a pieno il potere, ciò che, appunto, allarma le autorità: così, in nome di religione, morale pubblica e sicurezza dello Stato, il mesmerismo fu condannato sotto accusa di ciarlataneria comprovata dai più autorevoli scienziati del tempo. Tuttavia, nessun verdetto può decretare l'inesistenza di un fenomeno naturale dovuto al gioco di potenti forze, seppure non di tipo magnetico.

E’ infatti, di lì a qualche decennio la variegata fenomenologia transferale, che si era creduto di seppellire a colpi di sentenze, ricomparve altrove e sotto altro nome, calcando questa volta una scena decisamente più longeva. Il chirurgo scozzese J. Braid rispolverò le credenziali terapeutiche del rapporto a due, dando avvio a un movimento teorico la cui denominazione iniziale, braidismo, era destinata a rapido oblio, mentre quella finale, ipnotismo, era invece destinata a duratura memoria. Le sue vicende ottocentesche sono così complesse da prestarsi poco o niente a sommarie ricapitolazioni, fatto salvo il seguente snodo cruciale, segnaposto iniziale dell'avventura freudiana: quando J.-M. Charcot decise di occuparsene, l'ipnotismo aveva toccato i minimi storici delle sue quotazioni scientifiche, per effetto di discrediti non dissimili da quelli precedentemente toccati in sorte a mesmerismo e movimenti affini.

Dell'ipnotismo, Charcot ottenne una brillante riabilitazione considerandolo non più sotto l'ottica della relazione, sia essa magnetica o d'altra natura, ma come fenomeno biologico del tutto indipendente dall'osservatore. Con gli charcotiani stati sonnambulici il termine transfert debutta finalmente nel grande teatro dell'isteria, dove recita, per ironia della sorte, una parte non tanto diversa da quella a suo tempo imposta da Mesmer al rapporto magnetico: col tocco della mano o, a volte, mediante metalloscopia (applicazione di metalli sul corpo), alla Salpètrière è possibile trasferire un sintomo isterico da una parte all'altra del corpo, o addirittura da una persona all'altra, spostando così un'energia non più magnetica, ma nervosa, da luoghi di accumulo responsabili di patologia ad altri di graduale dissipazione transferale di sintomi, secondo il dettato di una vera e propria legge, la cosiddetta loi du transfert (Kravis, 1992).

La scuola di Charcot divenne famosa, ma le sue teorie erano destinate a entrare in rotta di collisione con quelle di altra scuola concorrente, capeggiata a Nancy dal medico H. Bernheim, e a naufragare di li a poco per opera della seguente tesi: la trance ipnotica, lungi dall'essere, come pretende Charcot, evidenza empirica colta in flagranza da un osservatore indipendente, è nuli'altro che fenomeno suggestivo capace di contagiare e ingannare entrambi i partner: l'ipnotizzato, incline al cieco convincimento di produrre in proprio ciò che altri gli suggerisce, e l'ipnotizzatore, credulo alla realtà di una performance da lui stesso indotta. Sul terreno dello scontro tra Parigi e Nancy si giocala competizione fra, rispettivamente, un modello intrapsichico dell'ipnosi, teorizzata come realtà biologica, e uno interpsichico, in cui l'ipnosi è invece puro fenomeno relazionale. Freud soggiornò sia a Parigi, presso Charcot, che a Nancy, presso Bernheim, e la sua opzione iniziale fu per un modello intrapsichico del transfert. Vediamone le ragioni, teoriche e difensive.

Negli Studi sull'isteria (Freud, 1892-95), dove il transfert compare a titolo esclusivo di intoppo della cura, sono avvertibili echi della teoria con cui Charcot spiegava le paralisi di immaginazione (paralisi isteriche): in virtù di un trauma o di un'autosuggestione (importante il prefisso auto-, pena il collasso di Parigi su Nancy), un'idea falsa sfugge alla stabile associazione di idee costitutiva della coscienza, menando vita psichica autonoma capace solo di episodica coscienza rudimentale, alternativa a quella normale, e riuscendo così a imporsi come vera per perdita di nessi aletici. Perciò, l'isteria è null'altro che fenomeno dissociativo, o meglio, disassociativo, così per Charcot. Analogamente Freud, seppure nel contesto radicalmente nuovo caratterizzato dal dispiegamento di precursori della futura metapsicologia, primi fra tutti sessualità e inconscio: la sofferenza isterica dipende da un corpo estraneo psichico, insieme di rappresentazioni escluse dalla coscienza e incapaci per-. ciò di scaricare la propria quota affettiva lungo il normale decorso associativo. Il lavoro terapeutico, consistente nel ripristino di questa viabilità interna mediante recupero alla coscienza dei ricordi rimossi, non sarebbe così improbo se non dovesse fare i conti con difese dall'angoscia e resistenze di varia natura, tra le quali una, formidabile, purtroppo insorge a volte quando il paziente, spesso di nuovo una giovane donna, è preso da subitaneo trasporto erotico e/o amoroso per il terapeuta. Accade in virtù dello stabilirsi di un falso nesso (controparte della falsa idea di Charcot) dovuto all'automatismo della normale coazione ad associare, nel seguente modo: un antico affetto, liberato in corso di terapia ma ancora privo della concomitante rappresentazione, soggiace alla suddetta coazione connettendosi all'incongrua rappresentazione del terapeuta, in virtù della presenza disponibile e sollecita di quest'ultimo.

La ragione teorica dell'opzione freudiana per il modello intrapsichico del transfert dipende perciò, in parte, dal retaggio di una circoscritta porzione della teoria di Charcot, e in parte dalla condivisione di una medesima epistemologia positivista e realista, tesa a conferire spessore ontologico a un fenomeno che rischierebbe letali contraccolpi mesmerici, se ad avere la meglio fossero le tesi suggestive di Nancy. In futuro, Freud si consentirà il lusso di evocare qua e là, come un fantasma, l'ipotesi della suggestione solo quando la psicoanalisi sarà ormai saldamente accreditata come scienza (Freud, 1937b). Tuttavia, anche alla teoria freudiana si applica l'assioma secondo cui nessun prodotto psichico, per quanto astratto, può essere del tutto esente da sovradeterminazìoni difensive, perché, quando un'avvenente paziente tenta di ab bracciare il proprio analista, quale via d'uscita è per lui migliore della perentoria adesione a una formula che, di quel paventato corpo a corpo, decreta falsità e patologia? Se ora, con una punta ferma sugli Studi del 1895, si apre il compasso di circa venti anni, centrando l'altra punta sugli scritti freudiani di tecnica (Freud, 1911b; 1912a e b; 1913b; 1914b e c), del transfert si può apprezzare di colpo l'inaudita carriera, sullo sfondo di un ribaltamento di scena che, superate in buona parte le precedenti sovra-determinazioni difensive, ha trasformato «coazione ad associare» in «coazione a ripetere» e «falsità» in «verità»: il transfert resta pur sempre una resistenza fra le più tenaci, è vero, senza di cui però l'analisi non decolla.

Del resto, la raccomandazione di trattarlo sempre come qualcosa di irreale la dice lunga, visto che ora la sua emergenza è da Freud stesso paragonata all'improvvisa irruzione di un elemento reale, come quando durante una rappresentazione teatrale si leva un grido d'allarme per un incendio. Il paragone è particolarmente perspicuo, non tanto e non solo a causa della sua natura incendiaria, ma perché mostra che, se proprio in tema di cura si vuole ad ogni costo tirare in ballo la categoria del fittizio, più che al transfert la si deve applicare alla vaga atmosfera oniroide generata dalla regola del setting, ma solo finché non si levano le fiamme. I vent'anni d'apertura del compasso sono ovviamente costellati di eventi che giustificano la prorompente ascesa del transfert, a partire da ben definite esperienze cliniche (Freud, 1905a; Barale, 1993) per finire alle correlate scansioni della progressione teorica e alle ricadute dell'autoanalisi a monte dell'Interpretazione dei sogni (Freud, 1899a), dove il termine transfert aveva flesso la sua semantica a catturare uno spostamento dell'investimento di tracce mnestiche secondo relazioni di somiglianza e contiguità. Lungo tutta l'ascesa, non fanno che moltiplicarsi le prove a sostegno dell'ipotesi secondo cui il processo di guarigione può compiersi solo con una recidiva d'amore, un nuovo flusso di quelle stesse passioni che animarono l'alba della vita (Freud, 1906), imponendosi così un modello teorico della memoria che la costituisce, nei suoi aspetti più profondi, come ripetizione agita di ciò che mai si riuscirà a recuperare al ricordo cosciente (Freud, 1913-14).

Clinica della recidiva d'amore e teoria della ripetizione possono ora convergere in un concetto suscettibile tanto di astratti sviluppi metapsicologici quanto di concrete applicazioni nosografiche, il concetto di «nevrosi di transfert», invocato a spiegare l'altrimenti misterioso potere della cura: si è del tutto impotenti sulla nevrosi infantile del paziente, ma quando essa sia transustanziata nel lega me con l'analista e il passato sia reincarnalo nel presente, ecco che la situazione si ribalta e si può, per interposta persona, sciogliere il dramma infantile liquidando la sua rappresentanza attuale. Liquidare il transfert è imperativo ricorrente negli scritti freudiani, categorico e ossessivo come solo può esserlo una difesa che toccherà al pensiero post-freudiano superare.

Per il momento, torniamo agli sviluppi metapsicologici e alle applicazioni nosografiche della nevrosi di transfert. I primi concernono, oltre al già citato modello della memoria come ripetizione attiva, soprattutto la teoria della libido. Durante l'ontogenesi, l'investimento libidico ha i suoi primi due picchi nella successione delle zone erogene parziali orale e anale, regioni del corpo ricche di indicatori edonici e nelle quali elettivamente avviene il cruciale commercio fra dentro e fuori destinato a tracciare i confini dell'Io (in termini postfreudiani: del Sé). L'investimento libidico è, in queste due fasi, di marca prevalentemente autoerotica, e bisognerà attendere il terzo e ultimo picco, quello della zona fallica, grosso modo intorno al quarto anno di vita, per assistere all'avvento dell'investimento oggettuale pieno che segue il tramonto del complesso edipico (Freud, 1905c). Da allora in poi, la libido ripartirà equanimamente i suoi investimenti fra Io (Sé) e oggetto, in obbedienza a una sorta di equilibrio da vasi comunicanti suscettibile di alterazione soprattutto in due condizioni (prescindendo dalle ritmiche alternanze di sonno e veglia), sulla cui parentela Freud insiste: nevrosi e innamoramento. La loro affinità è comprovata dalla facilità con cui si scivola dall'una all'altra, essendo sfruttata nel transfert la scissione che va da nevrosi a innamoramento. Nevrosi, innamoramento e transfert sono tutti caratterizzati da svuotamento libidico dell'Io a favore dell'oggetto, e a quest'ultimo tutti assegnano una caratteristica sopravvalutazione.

Ma esiste un'ulteriore squilibrio libidico, consistente questa volta nel ritiro della libido oggettuale a favore dell'Io, tipico contrassegno del narcisismo psicotico (Freud, 1914d). Siamo così giunti alle applicazioni nosografiche del transfert, che Freud adopera per suddividere la patologia psichica in due classi, costituite da nevrosi di transfert e nevrosi narcisistiche (psicosi), le prime suscettibili di cura analitica, le seconde no, visti i presupposti teorici. Perché, se l'investimento oggettuale presuppone il tramonto del complesso edipico, se dalla disponibilità di quest'investimento dipende il transfert, se la psicosi è invece prodotto preedipico, e infine se non vi è cura senza transfert, come sarebbe possibile l'analisi di uno psicotico ? Assieme all'imperativo liquidare il transfert, il transfert impossibile degli psicotici è una seconda difesa freudiana che toccherà ad altri superare dimostrando la precocità degli investimenti oggettuali, la rilevanza delle componenti preedipiche del transfert e la natura solo relativamente complementare degli investimenti narcisistici e oggettuali, aggiustamenti teorici, questi, fondati sull'evidenza clinica della regolarità d'insorgenza del transfert psicotico, fatti salvi i casi più destruenti e tenendo sempre d'occhio le differenze fra transfert psicotico e nevrotico. Anche in questo caso la difesa freudiana concerne un corpo a corpo, che qui è però prevalentemente inscritto nella competizione teorica: si tratta di preservare ad ogni costo la teoria della libido dagli attacchi di altre teorie, particolarmente di quella junghiana, ed è per questo che Freud dimentica persino di aver già rilevato egli stesso il transfert psicotico, quando era indaffarato a sciogliere l'enigma della paranoia (Freud, 1910d).

È possibile amare l'oggetto se e solo se è possibile odiarlo, perché amore e odio si implicano reciprocamente e spesso dall'uno all'altro non c'è che un passo. Nell'ottica freudiana, l'indifferenza non è affetto primario, ma risultato del perfetto bilanciamento dei due ingredienti affettivi di base, che si annullano reciprocamente in una sorta di cartesiana algebra delle passioni. La teoria dell'ambivalenza afferma infatti che nessuna relazione affettiva può essere pura, informata da un unico, monocorde affetto privo di complemento, e se l'odio paranoico non è che la faccia proiettiva di un amore rimosso e negato, altrettanto deve potersi dire dell'amore di transfert. La storia della scoperta del transfert negativo, segnato da odio, laddove quello positivo risulta segnato da amore, è affascinante soprattutto perché precede l'ultima svolta teorica freudiana (Freud, 1920a), che ad amore e odio assegnerà rispettivamente lo statuto metapsicologico di pulsione di vita e di morte.

Dopo quella svolta, il transfert negativo si sarebbe potuto dedurre per via assiomatica, mentre esso è nato precocemente a ridosso della clinica, avendo come battistrada la bisessualità originaria dell'essere umano, che attribuisce natura algebrica al complesso edipico rifornendolo degli stessi due segni che animano la relazione transferale. Così, il bambino preso nel triangolo edipico eterosessuale (complesso edipico positivo) ama la madre e odia il padre, viceversa la bambina; ma in ciascuno dei due casi non è difficile intravedere, in negativo, la rispettiva controparte omosessuale (complesso edipico negativo) di un dramma consumato all'insegna di intrinseca ambivalenza, la stessa che in varie diluizioni colorerà la personalità adulta (Freud, 1922). Del resto, percorrendo l'ontogenesi a ritroso, dal complesso edipico verso la fase anale e quella orale, l'ambivalenza resta una costante, essendo l'oggetto che punisce lo stesso che premia e quello che affama lo stesso che sazia, di modo che, se cura implica regressione e transfert, quest'ultimo non potrà andare in scena che nelle due varianti simultanee e opposte di amore e odio, anche quando apparentemente si recita un unico copione, sia esso erotico o aggressivo.

Il transfert riconvoca l'intero arco dello sviluppo ontogenetico, non solo le sue componenti edipiche; a fortiori, esso è appannaggio anche delle condizioni psicotiche; anzi, nella sua formulazione più generale, esso è costitutivo di ogni relazione umana significativa, sicché alla classica domanda freudiana che chiede se è amore l'amore di transfert, si può rispondere, appellandosi al principio di continuità psichica, che ogni amore è amore di transfert. Certo, il transfert può prestarsi a essere usato come resistenza, ma a quest'uso può essere piegata qualunque cosa, a partire dal sogno per finire alla stessa analisi globalmente considerata, quando sia giocata tra i ruoli complementari, collusivi e compiacenti del buon analista e del buon paziente; perciò, il laboratorio analitico non crea ex novo un fenomeno alieno, specifico e idiosincratico, ma è semplicemente luogo selettivo di incentivazione di una forza psichica che a quel laboratorio preesiste, più o meno come accade per un acceleratore di particelle che amplifica forze normalmente operanti in natura.

Queste, grosso modo, alcune linee guida dell'evoluzione postfreudiana del concetto, che conosce però numerose varianti e aggiustamenti teorici (Abend, 1993). Ne segue che non si deve, anzi, non si può liquidare il transfert, scopo della cura essendo una revisione della transferalità che la renda compatibile alla massima riduzione possibile della sofferenza psichica, consentendo al paziente di diventare ciò che egli avrebbe potuto essere se le sue condizioni i sviluppo fossero state ottimali. Quando poi si sfrutti la giusta finestra temporale d'uscita dalla relazione analitica, il paziente deve essere pronto a trasferire altrove le sue mutate risorse, deve cioè essere pronto a un transfert del transfert.

FRANCESCO NAPOLITANO